Gli under quaranta del Private Equity fanno sistema… In “cucina”

Gli under quaranta del Private Equity fanno sistema… In “cucina”

Gentili Soci,

Riportiamo un articolo uscito su MAG il 26 settembre 2016.

La Segreteria Organizzativa 

The Private Equity Kitchen

Gli under quaranta del Private Equity fanno sistema… In “cucina”

Si chiama The Private Equity Kitchen ed è la prima associazione dei giovani che lavorano nei fondi. A crearla due trentenni, Lorenzo Bovo e Giovanni Guglielmi. L’obiettivo? Fare business

Seduti al tavolo negoziale, i principal dei fondi di private equity e l’imprenditore stanno trattando un possibile investimento nell’azienda. Il giovane associate li ascolta guardandosi intorno. L’età media si aggira sui 60 anni, come quella dei board delle principali aziende del Paese, stando all’ultima ricerca di Mediobanca. Circa il doppio della sua età, pensa il ragazzo, mentre si accorge di essere spesso l’unico trentenne, o uno dei pochi, seduto a quei tavoli. La situazione descritta non è inusuale per molti giovani che lavorano nel private equity. In un ambiente in cui la seniority conta e il tema del ricambio generazionale è ancora un tabù, per gli under 40 dei fondi trovare il proprio posizionamento professionale è un’impresa. Se, infatti, da un lato il desiderio di costruirsi una carriera soddisfacente, la dedizione e l’intraprendenza spingono queste nuove leve della finanza a voler emergere, dall’altro gli scogli da superare sono altissimi, come l’inesperienza, la forte competizione e la carenza di contatti. La stessa giovane età, invece di essere una qualità, spesso getta ombra sulle reali competenze del professionista. In realtà, di giovani capaci, nei fondi, ce ne sono. E anche molti. Per l’esattezza, nei private equity italiani o internazionali attivi in Italia sono circa un centinaio. E oltre a essere bravi e preparati, alcuni di loro hanno anche deciso di unire le forze e creare, per la prima volta, un’associazione dedicata agli under 40 che lavorano nel settore.

UNA “CUCINA” PER FARE NETWORK E BUSINESS

The Private Equity Kitchen (PEK), questo il nome dell’associazione riservata agli under 40 del private equity, è stata fondata ufficialmente nel febbraio scorso da Lorenzo Bovo, 33 anni, investment manager di Private Equity Partner, e Giovanni Guglielmi, 34 anni, investment director di Synergo. «Vogliamo essere una “cucina” di idee e relazioni», spiegano a MAG i due fondatori, «un luogo in cui anche i giovani che lavorano nel private equity sia in Italia che all’estero, ma anche i gestori di fondi che guardano all’Italia, speculativi e family offices, possano incontrarsi, conoscersi e scambiarsi informazioni utili al proprio mestiere». Uno spazio, quindi, in cui crescere e intrattenere rapporti con altri professionisti dello stesso settore in modo da ampliare il proprio network ed eventualmente incrementare il proprio business. «Generare opportunità di investimento per la propria società – spiegano – è la chiave di volta che oggi consente a un giovane di crescere e di avanzare, piano piano, a livello professionale», e per questo per le figure più junior «è indispensabile iniziare ad avere un approccio a tutto tondo, in particolare sul fronte dell’orgination e del fundraising, che è la parte più difficile del nostro lavoro».

OBIETTIVO CONTINUITÀ

Scopo della “cucina” non è però la rottamazione fine a se stessa. «La volontà di PEK – precisano – è quella di mettere i giovani che lavorano nei fondi nella condizione di instaurare rapporti più significativi a livello professionale e quindi accrescere le possibilità di carriera di ognuno». Ma tutto senza voler scavalcare o superare i senior. Al contrario, «abbiamo agito in totale trasparenza e in allineamento di interessi. Lo scopo comune è dare continuità al settore», aggiungono. Legato a doppio filo alla continuità c’è però il tema del ricambio generazionale. Una questione controversa non solo in Italia ma a livello globale (si veda box). «Storicamente in questo settore il tasso di turnover è e resta molto basso», osservano i due professionisti, e ciò può essere spiegato ad esempio «con la presenza di meccanismi di incentivazione a lungo termine che legano il professionista alla società per molti anni». Inoltre le società di investimento, in particolare quelle di medio-piccola dimensione, generalmente «non sono organizzate “a scalini” come le aziende e non sono dotate di veri e propri piani di successione» probabilmente perché «il private equity è un’attività che in molti casi viene svolta in team poco numerosi e che dipende molto dalle professionalità in gioco, in cui è richiesta molta esperienza». Il rovescio della medaglia è che in alcuni casi un’eccessiva personalizzazione non aiuta – come già successo in passato a importanti operatori del settore – la continuità e la successione.

UN AMBIENTE ANCORA RISTRETTO

A complicare ulteriormente le cose per il giovane che avevamo lasciato seduto al tavolo negoziale, e per tutti i suoi coetanei, è la struttura stessa del mercato del private equity, che è tendenzialmente piccola e poco aperta. «Nonostante la dimensione ristretta del settore è paradossalmente più difficile per noi giovani conoscerci ed entrare in contatto – evidenziano – perché esistono barriere comunicative fra i professionisti, soprattutto junior, che sono ancora troppo alte e che impediscono o limitano le occasioni di scambio e di relazione». Innanzitutto perché, ad esempio, «i professionisti junior non sempre presenziano ai tavoli negoziali» e «se lo fanno spesso non hanno il modo di entrare in contatto con la controparte: i team dei fondi tendono a essere riservati». Mentre i senior, proprio in virtù di un ambiente che è sempre lo stesso, «si conoscono già». Per chi lavora da poco nel settore, dunque, un luogo come PEK diventa «essenziale» in un comparto in cui «anche farsi assumere è difficile» per via di una forte «concorrenza», e di una «situazione economica che è quella che conosciamo», spiega Guglielmi, e in cui una volta entrati «è complicato, se non dopo anni e anni di lavoro, creare relazioni stabili».

OLTRE I 60 SOCI

Come racconta Bovo, «dopo una serie di incontri «destrutturati e informali», organizzati con il coinvolgimento di amici e conoscenti nel settore e attraverso il passaparola, «a febbraio di quest’anno abbiamo costituito formalmente la PEK e a maggio 2016 abbiamo organizzato un primo evento istituzionale, nella sede dello studio legale Lombardi Molinari Segni – uno degli sponsor dell’associazione – dal titolo “Lo stato di salute dell’economia italiana e le reali prospettive di crescita: il ruolo giocato dal Private Equity” al quale hanno partecipato il presidente di Equita sim Alessandro Profumo e il responsabile ufficio studi e consigliere di amministrazione della stessa società Stefano Lustig. Oltre a Lombardi, a supportare l’associazione e in particolare l’organizzazione di eventi di interesse del network, ci sono anche altri quattro sponsor, uno per settore: PwC (per i transaction services), Willis Tower Watson (due diligence assicurativa), Russo De Rosa Associati (fiscale e tribuatrio) e Kroll (business intelligence e due diligence investigativa). Oggi PEK può contare su oltre 60 soci, di cui il 10% donne, basati sia in Italia che all’estero, e con età media inferiore ai 35 anni. L’ideale – spiegano i due professionisti – «sarebbe arrivare a 100 soci» e sebbene, precisano, il numero «non è di per sé fondamentale», raggiungere questa cifra sarebbe comunque un risultato significativo: nel mercato italiano, spiegano, «non sono molti i professionisti della nostra età, per questo pensiamo ad esempio a coinvolgere anche i colleghi italiani attivi all’estero, in particolare sulla piazza di Londra». A livello pratico, l’associazione intende organizzare altri appuntamenti, come ad esempio tavole rotonde su base trimestrale che riguardino temi di attualità, dalla Brexit alla situazione del sistema bancario italiano e delle aziende.

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